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Nello Splendore della Resurrezione del Signore l'uomo trovi la sua vera dimensione e riesca ad esprimerla con Amore e Carità.

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giovedì 12 gennaio 2012

San BERNARDO DA CORLEONE

San BERNARDO DA CORLEONE
Il frate buono, a cura di Antonio Maria Sicari


La cittadina di Corleone, in Sicilia - che ebbe dall'imperatore Carlo V il titolo di città coraggiosa' - non merita di essere ricordata soltanto per le tristi vicende di alcuni malavitosi dei nostri tempi. Oggi è bello ricordarla per questo suo figlio che conobbe la violenza, ma anche la santità.
Filippo Latini apparteneva a una famiglia numerosa, così buona e caritatevole che la loro casa era chiamata in paese 'la casa dei Santi', quella dove i più miseri trovavano sempre ospitalità, cibo e conforto.
Il ragazzo non era da meno, anche se il sangue spesso gli ribolliva davanti alle angherie compiute dalla guarnigione spagnola che presidiava la città. Tanto più che, proprio dai quei soldati, Filippo aveva imparato a tirare di scherma ed era diventato 'la migliore lama di Sicilia'. Così egli non indietreggiava quando doveva difendere dai soprusi qualche fanciulla angariata dai militari o dai signorotti, o i poveri mietitori depredati dei frutti del proprio lavoro.
Per umiliarlo, fecero venire da Palermo uno dei migliori spadaccini. Filippo lo ferì gravemente in duello, e dovette rifugiarsi nel convento dei cappuccini, come il fra Cristoforo manzoniano. Non volle più uscirne, deciso a espiare la violenza e l'orgoglio da cui s'era lasciato dominare, e prese il nome di fra Bernardo. Gli offrirono di intraprendere un corso di studi, ma rispose d'aver bisogno solo di studiare le piaghe di Gesù. In convento accettò gli uffici più umili: cuoco, lavandaio, infermiere, sacrestano. Bastava che gli lasciassero un pochino di tempo accanto al tabernacolo.
Con gli anni tutti impararono a chiamarlo 'il frate buono', padre dei miseri e di tutti coloro che avevano bisogno di spirituale conforto. Trascorse gli ultimi quindici anni della sua vita nel convento di Palermo, tra lunghe preghiere e penitenze innumerevoli, sempre pronto a intercedere presso Dio: 'Piangìa i peccati de la città', scriveva il cronista, soprattutto in occasione di qualche calamità naturale o bellica. Una volta lo udirono che dava perfino consigli a Dio: 'Piano, Signore, piano! - Gli diceva - Usateci misericordia!'.
Morì il 12 gennaio del 1667, a 62 anni, e prima di seppellirlo gli dovettero cambiare il saio per nove volte perché la gente continuava a sforbiciare quelle povere tuniche per portarne a casa un pezzetto, come ricordo e protezione.
...fonte Avvenire.it
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Forse esagerano un po’ i contemporanei a definirlo “la prima spada di Sicilia”, ma certo è che chiunque viene a duello con lui ne esce irrimediabilmente sconfitto. O anche peggio, come quel tal Vito Canino, che resta ferito ad un braccio e sarà permanentemente invalido. Non è, però, un attaccabrighe e un litigioso; semplicemente, un po’ troppo spesso viene presso dalla “caldizza”, cioè gli ribolle il sangue davanti a ingiustizie e soprusi e così mette mano un po’ troppo facilmente alla spada. Viene da un paese, Corleone, che per noi oggi è più famoso per l’ex primula rossa mafiosa ora assicurata alla giustizia che per aver dato i natali a lui nel 1605. La sua casa viene comunemente definita “casa di santi” per la bontà dei suoi fratelli e soprattutto per la carità di papà, calzolaio e bravo artigiano in pelletteria, che è abituato a portarsi a casa gli straccioni e i poveracci incontrati per strada, per ripulirli, rivestirli e sfamarli. L’unica “testa calda” è lui, giovanottone dalla costituzione forte ed imponente, che impara a fare il ciabattino nella bottega di papà fino al giorno famoso in cui ferisce quel tal Canino che lo aveva sfidato a duello. La vista del sangue e, soprattutto, il timore della vendetta e delle conseguenze di quel gesto, lo consigliano di cercare rifugio nel convento dei cappuccini, dove pian piano matura la sua vocazione religiosa. Ha appena 19 anni e i superiori fanno fare anticamera alla “prima spada di Sicilia”, tanto che solo a 27 anni può indossare il saio nel convento di Caltanissetta. I suoi bollenti spiriti si stemperano lentamente con l’esercizio continuo della preghiera, della penitenza e della meditazione, e alla fine viene fuori un uomo nuovo. Analfabeta e pertanto destinato ad essere un frate laico, svolge in convento i lavori più umili, in cucina e in lavanderia. Superiori e confratelli sembrano esercitarsi a farlo bersaglio di incomprensioni, malignità e umiliazioni attraverso le quali lui, adesso, passa imperturbato. Anche il demonio non lo lascia tranquillo, apparendogli sotto forma di animale e bastonandolo così rumorosamente da impaurire tutto il convento, ed egli lo tiene a bada soltanto con la preghiera, perchè, dice, “l’orazione è il flagello del demonio ed egli teme più l’orazione che i flagelli e i digiuni”. Anche se lui non fa economia né di questi né di quelli, sottoponendosi a penitenze che hanno dell’incredibile, soprattutto per un uomo della sua stazza e dall’appetito robusto, che si accontenta di qualche tozzo di pane duro ed a volte si priva anche di quello. Da stupirsi che, come dice la gente, attorno a questo frate fioriscano cose prodigiose che fanno gridare al miracolo? Consumato dalle penitenze e dalla fatica, trova il suo posto accanto al tabernacolo, dove prega in continuazione, e qui si ammala il giorno dell’Epifania del 1667. Muore il 12 gennaio, ad appena 62 anni e prima di seppellirlo devono cambiare per ben 9 volte la sua tonaca, perché tutte erano state fatte a pezzettini dai fedeli che volevano avere una reliquia. Beatificato nel 1768 e proclamato santo nel 2001, Bernardo da Corleone, dopo 400 anni, diventa oggi un simbolo per la sua città, che vuole riscattarsi dalla fama di coppole e padrini che fanno ormai parte dell’immaginario collettivo. Per questo hanno realizzato un musical per raccontare di quel giovane, che ad un certo punto della sua vita ha ripudiato le armi per scegliere la legalità. Più chiaro di così!
Autore: Gianpiero Pettiti
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Leggendo di lui si pensa subito al personaggio creato dal Manzoni nei Promessi sposi: fra Cristoforo, che prima era l’arrogante spadaccino Ludovico, sempre pronto alla lite anche mortale. Bernardo di Corleone è invece un personaggio reale, battezzato alla nascita con i nomi di Filippo Latino, quinto figlio di un calzolaio che forse è anche conciatore di pelli. Una famiglia molto religiosa la sua, con un fratello sacerdote. E lui, invece, che perde i giorni e la testa a osservare le esercitazioni di scherma tra ufficiali e soldati del locale presidio spagnolo. Infine si scopre “una delle migliori lame”, come si dice nell’ambiente. Non è esattamente quello che vorrebbero i suoi; ma le ragioni a favore della spada – in quest’epoca – hanno pure qualche peso. Per dirla in breve, al buon spadaccino si porta rispetto, anche se è figlio di un calzolaio.
Poi arriva a sfidarlo il palermitano Vito Canino, temibilissimo con l’arma in mano. Semplice sfida per il primato o regolamento di qualche conto? La causa non è certa, ma l’effetto sì: nello scontro il palermitano si trova con un braccio in meno. Ed ecco Filippo in convento. Per sfuggire alla giustizia? La prima motivazione sarà pure stata questa, dopo un certo periodo di latitanza.
Ma nel 1631 lo troviamo nel noviziato cappuccino di Caltanissetta, dove a 26 anni indossa il saio con il nome di frate Bernardo. Sono passati sette anni dal duello sciagurato con don Vito Canino. Lui è un altro uomo, ma il cambiamento non è stato gratuito o facile. E nemmeno rapido. Ha chiesto tempo e sacrificio, e qui è venuto fuori per gradi l’uomo nuovo, con la mitezza e con le penitenze durissime. Ordinari rimedi sono poi la preghiera e il lavoro continuo, il servizio ai confratelli, specialmente se ammalati.
C’è un racconto bellissimo di questa sua generosità. Trovandosi con i frati di Bivona durante un’epidemia, si prodiga a curarli in ogni necessità, perché l’unico rimasto sano in comunità è lui. Ma poi viene colto anch’egli dal male: allora, prende da una chiesa una statuetta di san Francesco e se l’infila in una manica dicendo: "Adesso tu rimani lì dentro finché non mi fai guarire, perché possa aiutare i confratelli".
La sua opera di infermiere si estende anche agli animali, in un tempo in cui la morte di un mulo o di un bovino può significare rovina per una famiglia. Si fa a suo modo esortatore e predicatore con certi suoi mini-sermoni in rima, ancora ricordati, come: "Momentaneo è il patire / sempre eterno è il partire".
Frate Bernardo “parte” da questa vita all’età di 62 anni, accompagnato subito dalla fama di santità, che sarà suggellata con la sua beatificazione nel 1768 e la canonizzazione nel 2001. Autore: Domenico Agasso
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BERNARDO DA CORLEONE
(1605 - 1667)
È rimasta nell'immaginario comune, diffusa da una vecchia biografia di maniera, la figura deformata di Bernardo da Corleone come di un attaccabrighe di piazza, simile allo spadaccino Lodovico del romanzo manzoniano. Ma Filippo Latino, come si chiamava prima di farsi frate, non era così.
Nato il 6 febbraio 1605 a Corleone, la sua casa era, a detta di popolo,"casa di santi", poiché il padre, Leonardo, un bravo calzolaio e artigiano in pelletteria, era misericordioso coi miserabili fino a portarseli a casa, lavarli, rivestirli e rifocillarli con squisita carità. Molto virtuosi erano anche i fratelli e le sorelle. Su questo terreno così fertile il giovane Filippo imparò presto ad esercitare la carità e ad essere devoto del Crocifisso e della Vergine. Gestendo una bottega di calzolaio, sapeva trattare bene i suoi dipendenti e non si vergognava di cercare elemosina "per la città in tempo d'inverno per li poveri carcerati".
Un solo difetto, al dire di due testimoni durante i processi, lo caratterizzava: "la caldizza ch'avia in mettiri manu a la spata quandu era provocatu". Questa "caldizza" metteva in ansia i suoi genitori, specie dopo che Filippo aveva ferito alla mano un superbo provocatore. Il fatto era avvenuto sotto gli occhi di molti nel 1624, quando Filippo aveva 19 anni, e fece grande rumore. Quel sicario prezzolato ci lasciò un braccio e Filippo, considerato la "prima spada di Sicilia", ne restò scosso nel profondo, chiese perdono al ferito, col quale diventerà in seguito amico, e maturò la sua vocazione religiosa finché, a circa 27 anni, il 13 dicembre 1631, vestì nel noviziato di Caltanissetta la tonaca dei cappuccini, i frati più inseriti nelle classi popolari, e volle chiamarsi frate Bernardo.
La sua vita è semplice. Egli passa nei diversi conventi della provincia, a Bisacquino, Bivona, Castelvetrano, Burgio, Partinico Agrigento, Chiusa, Caltabellotta, Polizzi e forse a Salemi e Monreale, ma è difficile delineare un quadro cronologicamente esatto. Si sa che trascorse gli ultimi quindici anni di vita a Palermo, dove incontrò sorella morte il 12 gennaio 1667. Il suo ufficio quasi esclusivo fu quello di cuciniere o di aiutante cuciniere. Ma egli sapeva aggiungere la cura degli ammalati e una quantità di lavori supplementari per essere utile a tutti, ai confratelli sovraccarichi di lavoro e ai sacerdoti lavando loro i panni. Era diventato il lavandaio di quasi tutti i suoi confratelli. Un intarsio di fatti e di detti, profumato da eroiche, per non dire incredibili, penitenze e mortificazioni formano la trama oggettiva e rilevante della sua fisionomia spirituale.
Le testimonianze dei processi diventano un racconto splendido di caratterizzazioni particolari della sua personalità dolce e forte come la sua patria: "Sempre ci esortava ad amare Dio e a fare penitenza dei nostri peccati" ."Sempre stava intento nell'orazione... Quando andava alla chiesa, banchettava lautamente nell'orazione e unione divina". Allora il tempo spariva e spesso rimaneva astratto ed estatico. Si fermava volentieri di notte in chiesa perché - come egli spiegava - "non era bene lasciare il Santissimo Sacramento solo; egli li teneva compagnia finché fossero venuti altri frati". Trovava tempo per aiutare il sacrestano, per restare piú vicino possibile al tabernacolo. Contro il costume del tempo egli usava fare la comunione quotidiana. Tanto che i superiori negli ultimi anni di vita, prostrato per le continue penitenze, gli affidarono il compito di stare solo a servizio dell'altare.
La solidarietà con i suoi confratelli si apriva ad assumere una dimensione sociale. A Palermo, in circostanze di calamità naturali, come terremoti e uragani, si fece mediatore davanti al tabernacolo, lottando come Mosè: "Piano, Signore, piano! Usateci misericordia! Signore, la voglio questa grazia, la voglio!". Il flagello cessò, la catastrofe fu alleviata.
Sul letto di morte, ricevuta l'ultima benedizione, con gioia ripetè: "Andiamo, andiamo", e spirò. Erano le ore 14 di mercoledí 12 gennaio 1667. Un suo intimo confratello, fra Antonino da Partanna, lo vide in spirito tutto luminoso che ripeteva con ineffabile gioia: "Paradiso! Paradiso! Paradiso! Benedette le discipline! Benedette le veglie! Benedette le penitenze! Benedette le rinnegazioni della volontà! Benedetti gli atti di ubbidienza! Benedetti i digiuni! Benedetto l'esercizio di tutte le perfezioni religiose!".
Allegato all' omelia tenuta dal S. Padre Giovanni Paolo II nel giorno della canonizzazione

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